La guerra a Lavis: i ricordi di una mamma (parte prima)

Il commovente racconto di una mamma alla propria figlia nata durante le tragedie e le miserie della seconda guerra mondiale

LAVIS. Era nata nel 1902, la mia nonna Agnese. Oggi avrebbe 118 anni. Non aveva studiato molto, ma sapeva scrivere molto bene e amava farlo. La sua passione per la scrittura la ereditò prima mia madre e poi la passò a me. Raccontava molto, la nonna: io ero piccina, ma ricordo bene quanto amavo ascoltare le sue storie.

Quando era già molto anziana, mio padre – che era suo genero, ma la amava come un figlio – le chiese, quasi implorandola e rigorosamente dandole del “Lei”:

“La scriva ‘ste storie, Agnese, così le resta”.

E lei, a quasi 90 anni, con i polsi tremanti, le mani magre e morbide con le vene in vista e la fede che ballava fra dita dimagrite dal tempo, impugnò una Bic e iniziò a riversare su un foglio i suoi ricordi. Memorie di guerra, memorie di paura, ma anche di speranza e di vita, perché sono la cronistoria dei giorni della nascita di mia madre, avvenuta nel pieno della seconda guerra mondiale, l’11 gennaio 1945. Quei racconti erano custoditi fra i tanti scritti che la nonna ci ha lasciato.

Ogni volta che mi capitavano fra le mani, mi chiedevo cosa avrei potuto farne per valorizzarli, poi è arrivato Il Mulo ed ho trovato la risposta. Perché sullo sfondo di questa storia, c’è Lavis.


Ricordi di guerra


1.Era il penultimo giorno dell’anno 1944 e la guerra infuriava sempre di più. Papà che lavorava alle Officine Elettrochimiche di Campo Trentino (ferriera), faceva dei turni di lavoro pesante ai forni dove si fondeva il ferro, il quarzo ed altri materiali per l’azione bellica. Tutto era sotto il presidio tedesco.

La giornata era serena, ma fredda e come sempre si prevedeva il solito bombardamento al Ponte dei Vodi. Così fu, verso le 11.00 suonò l’allarme, allora tutta la popolazione correva su al Rifugio del Bristol per salvarsi dalle bombe. Passavano anche le formazioni aeree americane cariche di bombe che venivano sganciate verso la Paganella dove ancor oggi, dopo 50 anni, si possono vedere gli squarci nella montagna. Si sollevava un grande polverone ed il materiale cadeva nella strada sottostante per poi finire nell’Adige.

Anch’io assieme ai miei figli corsi al rifugio e mi trovai vicina alla signora Paola Dworach. Con tanta delicatezza mi disse che suo marito quella mattina aveva incontrato una persona che in segreto lo avvertiva che la prossima notte sarebbero venuti dei mandati a prenderci la vacca (che era vecchia e dava poco latte, ma per noi era un sostentamento e una Provvidenza) perché gli ufficiali tedeschi abbisognavano di carne.

Al sentire questa notizia fui presa dalla paura e dalla disperazione e quando tornammo a casa attendevo con ansia il papà che quel giorno faceva il turno di lavoro dalle 6 alle 2 pomeridiane e ritornava sempre con la sua vecchia bici. Quando arrivò lo lasciai mangiare in pace e poi gli raccontai la notizia che avevo avuto al rifugio.


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L’imbocco del rifugio sul Pristol

L’incidente


2.Il giorno dopo era domenica e doveva fare la doppia (cioè lavorare) perché i forni non venivano mai spenti e perciò doveva ritornare ancora quella sera dalle ore 10.00 alle 6.00 del mattino.

Con le lacrime agli occhi lo implorai di non lasciarci soli in quella notte di paura. Allora chiamai Beppina e la mandai dal nostro medico di famiglia, il dottor Stainer, a pregarlo di fare un certificato di malattia (dato che lui sapeva che ero alla fine della gravidanza) per portarlo subito al lavoro per farsi sostituire da un altro operaio. E così fu.

Papà ritornò alla ferriera e consegnò il certificato e ricevuto il permesso mentre ritornava a casa, nei pressi di Lamar venne sorpassato da una tradotta di camion militari. Ma l’ultimo mezzo aveva il tendone sganciato e svolazzante e questo lo avvolse e lo gettò di peso sulle rotaie della vicina Trento-Malé. Il conducente del mezzo si accorse e fermò il camion e scese a sollevarlo. Si offrì anche di portare il papà a casa, ma, una volta in piedi, al papà sembrava di farcela ad arrivare a casa da solo appoggiato alla sua bicicletta e così fece.

Arrivato però sulla porta di casa, non ce la faceva più dai dolori ed allora Beppina e Riccardo dovettero trascinarlo su per le scale, metterlo a letto e chiamare subito il dottor Stainer. Questi venne immediatamente e, dopo una breve visita, disse che aveva la rotula del ginocchio rotta e si doveva portarlo all’ospedale. Però l’ospedale non era più a Trento perché a causa dei continui bombardamenti era stato trasferito a Pergine ed allora tutto diventava più complicato.

Il dottore dopo aver ponderato bene la situazione disse al papà:

”Se voi mi promettete di stare immobile a letto, vi lascio qui nelle mani dei vostri due figli più grandi che vi presteranno assistenza, mentre voi (disse rivolto a me) ancor domani andrete a Cles all’ospedale per partorire”.


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Aldo Stainer
Aldo Stainer il 2 febbraio 1964, alla festa per il suo pensionamento

Verso l’ospedale di Cles


3.Per tutta la notte facemmo al papà impacchi di acqua di piombo mentre io mi preparavo in tutta fretta la valigia. Il giorno dopo, era il primo dell’anno, assieme a mia nipote Elena Bronzetti che mi accompagnava con tanta premura, salimmo sul tram delle 5.30 e partimmo per Cles.
(La sera prima era arrivata da Cortesano mia sorella Angelina portandomi un pacchetto di biscotti e poi si fermò a dormire fino alle 5 di mattina per poi fare ritorno alla sua famiglia a Cortesano.)

Quando fummo alla Rocchetta sulle rotaie del tram c’era un camion militare messo di traverso e così dovemmo aspettare fino alle 8 quando finalmente riuscirono a spostarlo. Finalmente si poteva ripartire ma verso le 11.00, ci fu un bombardamento e venne tolta l’elettricità ed il tram non poteva proseguire.

Ci fecero arrivare fino alla più vicina stazione e lì aspettammo fino alle 3.00 del pomeriggio quando arrivò la ferratella che ci portò sulla strada per Cles. Ma anche questa non poté proseguire perché non aveva più acqua. Per fortuna passavano dei camion militari ed un uomo che conosceva il tedesco ne fermò uno e chiese al conducente se mi poteva portare all’ospedale di Cles. Questi parlò al suo compagno e quindi scese dal camion e mi lasciò il suo posto in cabina mentre mia nipote Elena la sistemarono sul cofano.

Faccio notare che sia la cabina che il camion erano aperti protetti solo dal telone ed era un freddo polare. La neve non cadeva a fiocchi ma a grani gelati che martoriavano la faccia. Il secondo soldato fece fermare il camion e, con un gesto compassionevole, scese si levò di dosso la coperta che aveva e mi avvolse dentro. Non ho mai dimenticato di pregare per lui.

Finalmente arrivammo all’ospedale e ringraziammo di cuore quei militari. Elena aveva i capelli ed il cappotto che sembravano pieni di perle luccicanti a causa di tutto quel nevischio. Entrammo in portineria ed aspettammo il visto per la degenza e c’era una gran folla. Quando arrivò il mio turno, la suora mi disse che non c’era posto in maternità e che andassi in qualche casa vicina a chiedere ospitalità per qualche giorno.

Era notte, c’era l’oscuramento ed Elena doveva far ritorno a Lavis perché il giorno dopo doveva essere al lavoro perché era militarizzata.

Allora mi rivolsi ad Elena angosciata dicendole:

«Ti prego portami a casa e sarà quel che Dio vorrà».

In quel mentre passò un’altra suora che sentendo le mie parole mi disse:

«Aspetti che telefono io».


FINE PRIMA PUNTATA

(Continua…) – La seconda puntata sarà pubblicata domenica 8 marzo alle 12

Fumogeni della T.O.T. lungo i tornanti della Valle di Cembra

 

 

Classe 1981 e lavisana doc, ama scrivere e ragionare. Da bambina sognava di fare la giornalista o la pubblicitaria e, in fondo, un po’ ce l’ha fatta: oggi si occupa di comunicazione e marketing con la sua agenzia che ha sede proprio a Lavis

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