Il pesce è finito, un libro che denuncia l’impoverimento dei mari

Nella giornata mondiale dell’ambiente vi proponiamo una riflessione su un particolare aspetto della nostra abitudine a sfruttare in maniera indiscriminata le risorse che abbiamo a disposizione

Trento. Se noi italiani dovessimo mangiare solo pesce proveniente dalle nostre acque non ne avremo più a disposizione, approssimativamente, intorno alla fine di marzo di ogni anno. Si chiama Fish Dependence Day, e rappresenta la data in cui un Paese, senza apporti esterni, esaurisce le scorte interne di pesce.
Come accade per altri indicatori che misurano il consumo di risorse naturali, questo giorno si sta verificando sempre prima. Se trent’anni fa, per l’Europa, questo giorno si verificava verso la fine di settembre, oggi è anticipato all’inizio di luglio; per l’Italia intorno alla fine di marzo.

La denuncia dello sfruttamento in un libro


Nel libro “Il pesce è finito – lo sfruttamento dei mari per il consumo alimentare”, edito da Infinito Edizioni, appena uscito in libreria e patrocinio di Oceanus onlus, cerco di analizzarne le ragioni.
Non ha importanza se il pesce è una risorsa rinnovabile. Se non si rispettano le quantità e le tempistiche di cattura proprie di ogni specie, rischia di “finire”.

Cinque prodotti soltanto, a livello europeo, coprono quasi il 50% dei consumi complessivi. Salvo eccezioni locali, ci si è concentrati solo su alcune specie ritenute “principali”. Quasi un italiano su due, ad esempio, mangia tonno ogni settimana. Questo significa aumentare le pressioni su determinate specie che, per questo, sono in forte declino.
Il pesce spada, secondo l’Ong Oceana, dagli anni Ottanta ad oggi, nel Mare Nostrum è diminuito del 70%. Secondo uno studio internazionale, le catture di tonno, a livello globale, negli ultimi sessant’anni, sono aumentate del 1000%. Secondo il Wwf, dal 1970, la popolazione di tonni, sgombri e palamite, a livello globale, è crollata del 75%. In tutto il mondo, su 163 specie di cernie, 20 sono a rischio di estinzione e altre 22 sono quasi a rischio di estinzione. La verdesca, il palombo e lo smeriglio sono alcune specie di squalo che non se la passano affatto bene a causa di decenni di pesca eccessiva.
A livello globale, oltre il 30% degli stock ittici è eccessivamente sfruttato e circa il 60% lo è pienamente.

Nel corso del Novecento si sono sviluppati metodi di conservazione (pensiamo a quando sono nate le celle frigorifere) e si sono ottimizzati i trasporti, con il risultato che l’offerta dei prodotti ittici, oggi, non è più generata dalle reali disponibilità di un luogo ma dalla domanda, basata su mode e possibilità economiche. In un mio precedente libro dal titolo “Il mondo di cristallo” scrivevo “in una città non c’è il mare ma ci sono i pesci”. È dunque importante rendersi conto di come quei pesci arrivano nelle “città” e di cosa viene fatto per pescarli.

Il necessario cambio di mentalità


Vivere in un mondo globale, quale quello che abbiamo costruito, richiede di pensare in un modo globale; ed è questa, forse, una delle maggiori sfide ambientali alle quali siamo chiamati.

Stiamo pescando troppo e lo stiamo facendo male, se è vero che, contemplando anche il deterioramento lungo la filiera, secondo la Fao, il 35% di tutte le catture non arriva al nostro piatto. Alcune organizzazioni non governative aumentano, e non di poco, questa percentuale.
Scordiamoci le piccole imbarcazioni in legno pitturate di azzurro. Non che non esistano, ma di certo non è da loro che arriva il pesce che finisce nei bustoni dei supermercati. I mari sono solcati da pescherecci attrezzati per la conservazione a bordo che, in alcuni casi, possono superare i cento metri di lunghezza. Questi, in un solo giorno, sono in grado di raccogliere oltre duecento tonnellate di pesce.

Abbiamo creato reti che possiedono le dimensioni di un campo da rugby e che spazzano i fondali, ripulendoli dalle diverse forme di vita. Queste, oltre che prelevare dall’ecosistema anche esemplari giovani non ancora maturi, prelevano una serie di animali che non corrispondono alla specie target per la quale si è usciti in mare. Gli inglesi dicono bycatch, gli italiani catture accessorie, che altro non divengono se non “scarto”.

Negli attrezzi da pesca possono restare imprigionati anche animali tutelati da normative internazionali. Per riportare alcuni dati, secondo il Wwf, annualmente, vengono uccisi circa 300.000 tra delfini e piccole balene. Secondo uno studio del 2014 del progetto TartaLife dell’Ue, nel Mediterraneo, annualmente, vengono catturate circa 70.000 tartarughe marine con i palangari (longlines), delle lenze lunghe diversi chilometri che possiedono migliaia di ami attaccati.
Non a caso, secondo la Iucn, la prima minaccia per i vertebrati marini in Italia è rappresentata dalla mortalità accidentale.

L’allevamento, soluzione o problema?


Secondo la Fao, il consumo di prodotti ittici, nei prossimi anni, continuerà a crescere. Buona parte di tali prodotti deriveranno dall’industria dell’acquacoltura, che oggi fornisce più del 50% di tutto il “pesce” consumato dagli esseri umani.
Sebbene sia opportuno differenziare caso per caso, quando si parla di allevamento bisogna tenere in considerazione l’efficienza con cui, in termini di peso equivalente, l’acquacoltura converte un’unità di pesce selvatico in un’unità di pesce allevato. Seppure la ricerca stia facendo passi da gigante, per alcune specie di grandi dimensioni e con una certa dieta (pensiamo al salmone) non è ancora possibile ottenere un rapporto 1:1. Il che vuol dire che si prelevano dai mari pesci considerati di minore importanza solo per avere specie più alla moda, in quanto solo una parte dei mangimi e delle farine si ottiene dai prodotti di scarto della filiera ittica, quali i filetti. Secondo una logica piuttosto diffusa in diversi settori, le risorse naturali, anche in questo caso, vengono prelevate dai Paesi più poveri per essere trasportate in quelli più ricchi, a beneficio di quest’ultimi.

L’allevamento, non è quindi sempre una risposta alla problematica. Al di là degli aspetti di natura etica, comunque non trascurabili, in quanto i pesci in termini numerici sono gli animali più sfruttati al mondo, l’allevamento può alimentare altre criticità, quali il rilascio di inquinanti in ambiente marino o la distruzione di habitat (pensiamo alla sostituzione delle foreste di mangrovie per fare spazio alle gabbie per l’allevamento di gamberi e gamberetti, la cui produzione è passata da mezzo milione di tonnellate, nel 1990, a quattro milioni di tonnellate).

Consapevolezza ed equilibrio


La vita dei mari, se messa nelle condizioni di poterlo fare, è tuttavia in grado di riprendersi.
Tutto quello che dobbiamo fare è permettere agli ecosistemi di rimettersi in modo in modo naturale.
Come scrive Umberto Pelizzari nella prefazione, è necessario cogliere i segnali che il mare ci invia e adattarci alle sue esigenze.

Un italiano, nel 2003, consumava poco più di 21 chilogrammi di pesce e suoi derivati; oggi ne consuma circa 29 chilogrammi. Al di là dei modelli economici che sono stati costruiti, quando si parla di risorse naturali, è necessario osservare attentamente il loro andamento.
Per quanto se ne dica, i pensieri e le azioni possono plasmare le leggi, i governanti, i consumi, i commercianti e il mondo di domani.

 

(Bologna, 1980), naturalista e divulgatore ambientale. Nel 2006, dopo un master in comunicazione ambientale, fonda AmBios, azienda specializzata in educazione e comunicazione ambientale. Collabora con molti enti sul territorio nazionale. Ha all’attivo oltre duemila incontri pubblici tra conferenze, interventi didattici e momenti formativi. Vive diviso tra Trentino e Sardegna, tra i boschi e le coste di cui ama raccontare le storie.

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