Lavis e don Grazioli (3 di 5) – La fragile economia del Trentino di metà Ottocento

La storia di come il sacerdote lavisano seppe dare una risposta ai problemi economici che avevano messo in crisi le classi più povere della popolazione trentina.

LAVIS. L’economia del Trentino di metà Ottocento era fortemente legata al mondo agricolo. All’interno di questa fragile economia, due soli erano i settori che risultavano essere dinamici e in forte crescita: la viticoltura e l’industria della seta.

Proprio queste attività, che erano diventate verso la metà dell’Ottocento i pilastri portanti dell’economia regionale, furono seriamente messe in crisi da due malattie che si diffusero negli anni ’50.


Lavis e don Grazioli

Prima puntata – Un prete di campagna e il suo tempo: venti di rivoluzione

Seconda puntata – La battaglia per la libertà

Quarta puntata – La storia nelle cronache e nei documenti

Quinta puntata – La storia del monumento


Il comparto vitivinicolo

La comparsa e la diffusione di una nuova malattia della pianta della vite, la crittogama o oidio, mise in ginocchio la produzione vitivinicola. La presenza di questo parassita, di provenienza americana, aveva cominciato ad intaccare i vigneti di tutta Europa a partire dai primi anni ’50. La sua comparsa in Trentino è datata 1851, con un significativo incremento nel 1853 e una massima diffusione nel 1859.

In Francia vennero subito intraprese diverse ricerche, volte a sconfiggere la malattia, ma i risultati non furono immediati.

In Trentino, come in altre regioni italiane, il rimedio non prese piede immediatamente. Mancavano i veicoli necessari per diffondere le nuove scoperte scientifiche1.


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La bachicoltura e l’industria della seta

Negli stessi anni anche l’altro settore portante dell’economia trentina venne colpito da una gravissima crisi.

Lo sviluppo delle filande e soprattutto l’allevamento dei bachi da seta avevano permesso, alle famiglie contadine, da una parte un importante arrotondamento dei magri guadagni derivanti dal lavoro agricolo, e dall’altro un importante sbocco occupazionale.

La gelsibachicoltura rappresentò, per anni, una considerevole fonte di guadagno per la classe rurale. Questa attività permetteva una proficua divisione dei lavori, perché spesso il compito di coltivare i gelsi ed allevare i bachi era affidato alle donne e ai bambini, mentre gli uomini potevano dedicarsi ad altre attività.

I costi di impianto erano davvero modesti. Il tempo di esercizio era circoscritto a qualche mese, solitamente ad inizio estate, e quindi l’introito di denaro che ne derivava giungeva proprio nei periodi in cui ve ne era maggiore carenza.


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La pebrina

Proprio mentre questa attività stava prendendo sempre più piede, trainata anche da un’industria della seta che rappresentava uno dei pochi esempi di sviluppo industriale in Trentino, si diffuse nelle campagne una nuova malattia: la pebrina (questa malattia prese il suo nome dalla parola provenzale pebre, che significa pepe, per via del colore delle macchie che ricoprivano i bachi malati).

I primi segnali della malattia in Trentino comparvero nel 1855.
La capacità produttiva della bachicoltura locale scese del 50% e oltre, e per le famiglie contadine venne meno una delle fonti più sicure di reddito.

Nel 1859, si andò incontro alla perdita totale degli allevamenti delle razze indigene.
Tutto questo si aggiungeva alla drastica riduzione di lavoro nelle filande, direttamente collegata alla mancanza di materia prima.

Un’economia in ginocchio

L’intera economia del Tirolo italiano era messa in ginocchio, ed era quindi di fondamentale importanza trovare in tempi rapidi delle soluzioni a questi problemi, primo fra tutti quello della malattia dei bachi da seta.

L’unica soluzione possibile per contrastarne gli effetti negativi della pebrina rimase per molto tempo l’acquisto di bachi sani, proveniente da zone immuni. In un primo momento, tali zone furono individuate nelle vicine Dalmazia e Romania.

Successivamente, constatata la presenza del morbo anche in quei luoghi, la ricerca di sementi si spostò progressivamente verso Oriente, per giungere infine in Giappone.

L’operato di don Grazioli

In questa opera di ricerca sarà fondamentale l’apporto proprio del sacerdote lavisano di cui stiamo raccontando la storia: don Giuseppe Grazioli. Con spirito di sacrificio e integrità morale si mise a disposizione della comunità e permise alla bachicoltura di superare gli anni più bui della crisi.

Nel 1858 nacque a Trento, sotto la tutela dell’autorità politica, il Comitato Circolare seme-bachi o Comitato Bacologico. Lo scopo principale di questo ente era quello di provvedere, per il beneficio di tutto il Tirolo meridionale, all’importazione di sementi immuni dall’infezione della pebrina. Fu proprio il Comitato Bacologico che si rivolse, fra le altre persone, anche a don Giuseppe Grazioli, per chiedergli di mettersi in viaggio alla ricerca di seme bachi sano.

La scelta di affidare al sacerdote lavisano un incarico così delicato, oltre che a legami di amicizia con i rappresentanti del comitato, era dovuta anche e soprattutto al fatto che:

«egli sentiva fortemente l’angoscia delle calamità che colpivano l’agri­coltura e l’urgenza di imparare ad affrontarle con armi adatte; aveva una buona conoscenza, dovuta ad esperienza diretta e agli studi compiuti, dei problemi agrari della sua gente; infine la sua indole attiva lo spingeva a muoversi e ad agire tempestivamente, mentre la sua capacità affaristica poteva essere una buona garanzia di successo per un’impresa che si presentava difficile e inusitata»2.

La ricerca di seme sano si sposta ad est

Il primo viaggio, datato 1858, ebbe come meta la Dalmazia e si rivelò un fallimento, in quanto non fu possibile trovare alcun seme sano. L’anno successivo, don Grazioli partì alla volta di Bucarest assieme ad altri due incaricati. Anche questa missione si rivelò un fallimento, soprattutto a causa del­l’in­capacità dei suoi compagni di viaggio.

Nel 1860 finalmente il sacerdote lavisano poté partire da solo, e decise di ritornare a Bucarest, dove si occupò personalmente della scelta e del confezionamento del seme. Il successo della spedizione fu solo parziale, in quanto il seme importato si rivelò non del tutto sano. Nel 1861, nel tentativo di trovare del seme sano, il Comitato chiese a don Grazioli di spingersi in Oriente alla ricerca di nuovi mercati. Il sacerdote si recò in Asia Minore, a Smirne e a Vodina, dove riuscì a stipulare dei contratti di acquisto particolarmente vantaggiosi.

Nel 1862, visti i buoni risultati conseguiti nell’anno precedente, don Grazioli si recò nuovamente a Vodina, ma questa volta il seme importato non diede i risultati sperati, in quanto la malattia aveva cominciato a diffondersi anche in Asia Minore. Nel 1863, don Grazioli decise di spingersi ancora più ad Oriente, nelle regioni del Caucaso. Nonostante l’ottimismo iniziale, anche i semi importanti da questo sesto viaggio dopo un anno si rivelarono infetti.

I viaggi in Giappone

Quando la situazione stava per precipitare, giunse la notizia dalla Lombardia che alcuni allevatori avevano ottenuto buoni risultati con il seme importato dal Giappone. Ancora una volta il Comitato si rivolse a don Grazioli, e lo convinse a recarsi in Giappone.

Nel 1864, il sacerdote si recò a Yokohama, dove acquistò e confezionò 10.000 cartoni di seme3, che una volta importato diede ottimi risultati. Nello stesso periodo la malattia continuava a distruggere completamente i raccolti derivanti da sementi di altra provenienza.

Nel 1865, don Grazioli partì nuovamente con destinazione Yokohama, ed anche questa volta il risultato delle sementi importate fu positivo ed il sacerdote ottenne il plauso del Comitato e degli allevatori. Don Grazioli si recò in Giappone altre tre volte, nel 1866, nel 1867 e nel 1868.

Fortunatamente la scienza nel frattempo aveva fatto progressi, e l’applicazione del metodo della selezione microscopica aveva permesso la riproduzione in loco del seme giapponese immune dalla pebrina, rendendo di fatto inutili altri viaggi in Giappone.


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Un sacerdote sempre attento ai problemi della sua gente

Il ruolo di don Grazioli nell’economia del Trentino di fine Ottocento non si esaurì con l’ultimo viaggio in estremo Oriente, del 1868. La sua indole, e l’espe­rien­za accumulata nei suoi viaggi, lo spinsero ad intraprendere le più svariate iniziative per aiutare il mondo trentino, e in particolar modo l’ambiente contadino, a prendere una maggiore consapevolezza della propria forza e delle proprie capacità.

A questo scopo egli impiegò non solo i compensi ricevuti per i suoi viaggi, ma anche i notevoli guadagni che realizzò con l’intensa importazione di oggetti esotici. Mentre era ancora in vita promosse la costituzione di una scuola di agricoltura, che fu re­a­lizzata nel 1873 e che operò fino al 1882. Tale scuola anticipò di un anno la fondazione dell’Istituto Agrario di San Michele, che essendo fortemente voluto dal go­verno di Innsbruck disponeva di mezzi economici e didattici maggiori rispetto al­la scuola di Trento.

Dedicò anche risorse economiche e tempo alla costituzione di una fondazione che doveva dedicarsi all’educazione della gioventù, soprattutto dei ragazzi più problematici.

«Intendo con questo di mettere le basi onde venga liberato il paese da una dolorosa schiavitù.

Il paese deve fare da sé, coraggio e lavoro. Iddio aiuta i forti».dal testamento di don Grazioli


Lavis e don Grazioli

Prima puntata – Un prete di campagna e il suo tempo: venti di rivoluzione

Seconda puntata – La battaglia per la libertà

Quarta puntata – La storia nelle cronache e nei documenti

Quinta puntata – La storia del monumento


 

Note

  1. Per rispondere alla crisi dell’agricoltura in generale, e per dare nuovo vigore ad un settore portante dell’economia locale, nel 1874 venne così fondato dalla dieta regionale tirolese di Innsbruck l’Istituto Agrario di S. Michele all’Adige. Lo scopo era di promuovere il cooperativismo, l’insegnamento delle materie agricole, l’introduzione di nuove tecniche produttive e di nuovi macchinari
  2. Elisabetta Pontello Negherbon, Grazioli un prete per il riscatto del Trentino, Trento, Panorama, 1991, p. 51
  3. In occasione di questo viaggio, per la prima volta si comincia a parlare di cartoni di seme e non di once. Si trattava di una specie di cartoncino delle dimensioni standard, 15×25 cm, ottenuto incollando più strati di carta attorno ai quali veniva avvolta la bava del baco, al cui interno era collocato e conservato il seme. Il cartone era decorato con scritte augurali e con il marchio di fabbrica del produttore.

Nato a Trento nel 1972, laureato in Economia Politica all'Università degli studi di Trento. Impiegato commerciale è appassionato di economia e di storia. Attualmente è vicepresidente dell'Associazione Culturale Lavisana.

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