L’antica Via della Seta che passò anche da Lavis

In un’opera d’arte nata dalla collaborazione tra oriente e occidente un forte messaggio che affonda le sue radici nella nostra storia

Lavis. In un periodo storico nel quale si parla di dazi, muri e guerre commerciali vogliamo ricordare chi, anche nella piccola Lavis, voleva invece a suo modo creare ponti e contatti. Parliamo di Paola de Manincor e di un suo lavoro che tutti possono liberamente ammirare.

Il giorno 27 ottobre del 2001 venne infatti inaugurato un murale di grandi dimensioni (circa 20X9 metri) su una facciata della Cantina Sociale di Lavis. L’affresco venne realizzato dalle mani e dall’esperienza di cinque artisti, due italiani e tre cinesi: la lavisana Paola de Manincor, Andrea Tomaselli, Wen Jun, Yang Gengxu e Wang Xinsheng. Il soggetto di questo grande lavoro era un’antica via di comunicazione che nella seconda metà dell’ottocento era diventata fondamentale anche per noi trentini.

L’antica Via della Seta aveva come punto di partenza la città di Chang’an (l’odierna Xi’an) e si snodava nel deserto per poi attraversare territori vari, incolti e coltivati, monti e valli, torrenti e fiumi fino ad arrivare in Occidente. Un percorso lungo e difficile che metteva in contatto mondi e culture estremamente diverse. Le relazioni commerciali ed economiche tra queste realtà, grazie alla Via della Seta, erano già fervide più di mille anni fa.

Invito stampato per la manifestazione. Sulla destra gli autografi dei tre artisti cinesi

Il murale della cantina


Il lavoro dei cinque artisti voleva riprodurre questo legame tra mondi diversi e celebrare due personaggi che quella via l’avevano percorsa per portare speranza e benessere alle proprie genti.

L’affresco riporta in alto i busti di questi due personaggi che spiccano tra le foglie di gelso. Uno è il lavisano Don Grazioli e l’altro è Zhang Qian, colui che, durante la dinastia Han (206 a.C. – 220 d.C.), aveva percorso la Via della Seta, via terra, partendo dalla Cina.

A seguire in parte l’andamento curvo della parete sono state introdotte delle figure chiamate Fei Tian, tipiche rappresentazioni molto sinuose di personaggi femminili del pantheon buddista. Al centro invece spicca un grande edificio, la pagoda dell’Oca Selvaggia, che è simbolo della città di Xi’an, luogo di provenienza degli artisti cinesi che hanno collaborato con Paola e Andrea.

La composizione continua con gli alberi di gelso dai quali alcune donne selezionano le foglie migliori per darle da mangiare ai bachi. Dai canestri dove i bachi si nutrono si passa poi alla produzione della seta dove altre donne sono intente a controllare il prezioso tessuto. Questo va a congiungersi con la coloratissima coda della civetta, che è parte del lavoro degli artisti italiani, come mezzo e simbolo di unione e congiungimento tra i due popoli.

Nella parte inferiore è stata rappresentata una carovana di cammelli nel deserto guidata dallo stesso Zhan Qian. Ciò sta a simboleggiare il percorso ma allo stesso tempo le asperità che tale viaggio comportava.

I riferimenti locali


Nella parte sinistra dell’opera troviamo poi alcuni elementi che fanno riferimento proprio a Lavis, il tutto illuminato da un grande  sole, maestoso, simbolo di quella forza profonda che non muore mai e snodandosi sul resto della parete illumina tutto il racconto e allo stesso tempo lo protegge.

Sotto, lo sguardo incontra il capitello della Madonna del Carmine, luogo d’innumerevoli preghiere e di ritrovo per le propizie “Erogazioni” (processioni per richiedere l’aiuto divino contro le calamità naturali), tanto vicine al popolo nel corso dei secoli scorsi. Questa parte dell’opera s’ispira alla prima metà dell’800 quando, dopo un periodo di prosperità in seguito alle fortunate produzioni di seta e di uva, il popolo trentino conobbe una fase di terribile crisi determinata della comparsa di malattie del baco e della vite.

Il periodo prospero è rappresentato da una figura che porta un enorme peso sulla schiena; certo bisognava lavorare tanto, ma il risultato era quello di una certa ricchezza e sicurezza. Ma questo periodo di tranquillità non era destinato a durare a lungo. Verso la metà dell’800 comparvero anche in Trentino prima una malattia della vite e poi dei bachi da seta. L’epoca della crisi è rappresentata da una donna che non può raccogliere il frutto delle proprie fatiche.

Ma la speranza non muore. Ecco così comparire un personaggio che, grazie ai suoi viaggi in Oriente, portò il seme del baco da seta sano, cambiando le sorti dell’economia. Trattasi di Don Giuseppe Grazioli, raffigurato nell’opera con i due elementi che lo accompagnarono nella sua vita a sevizio dei problemi dei poveri: un bastone e le paramenti ecclesiastiche.

Vite e gelso, legate fra loro a formare una cornice con l’acqua che scorre come una continua preghiera, proprio vicino al Capitello e un drappo di seta che unisce l’Oriente con l’Occidente in un legame profondo e duraturo. Il drappo di seta è sorretto da una civetta dagli occhi dorati come monete, divenendo simbolo e auspicio di benessere, di fortuna per il futuro e di forza per le generazioni successive.

Così fortuna e sfortuna, gioie e dolore, crisi e prosperità si alternano senza dare, però, segno di sconforto, di rassegnazione o di disperazione. Un pensiero pittorico forte, per testimoniare che l’arte può avvicinare tutte le culture e anche le diverse esperienze.


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Collezionista e appassionato di storia locale, è stato decorato con la croce nera del Tirolo È autore di alcuni libri sulle vicende belliche della prima guerra mondiale.