C’era una storiella che sessant’anni fa si raccontavano i chierichetti
LAVIS. Una sessantina d’anni fa circa, tra noi chierichetti circolava una storiella semplice, accaduta negli ultimi giorni della Settimana Santa. Il fatterello – se così si può chiamare – aveva creato un certo che di suspense tra tutti gli addetti ai lavori che, in quei giorni, erano impegnatissimi nella lunga serie di celebrazioni che occupavano tutte le intere mattinate della settimana antecedente alla Pasqua.
I quattro campanari
1.A dar man forte al “Rico monech” (Udalrico Vindimian) in quei periodi impegnativi dell’anno liturgico, c’erano sempre i quattro fedelissimi campanari di allora: il Francesco (detto Cianci), Massimo (detto pizegot), Carlo (detto babicio) e Romolo (detto leone).
Dire disponibili, a quel quartetto di veri volonterosi, era senz’altro poca cosa: erano sempre in chiesa in ogni momento e tiravano nelle corde delle campane dell’arcipretale di Sant’Udalrico, con vera forza, consumata maestria e grandissima passione, il tutto con invidiabile puntualità e costanza del tutto particolari.
La Settimana Santa
2.Il grosso “lavorio” della Settimana Santa, iniziava anche allora già con la domenica delle Palme: distribuzione dell’ulivo con processione al mattino, nuovamente processione per l’avvio delle “40 ore” al pomeriggio.
La settimana si apriva quindi davanti a noi con tutta la sua affascinante e coinvolgente intensità di riti, impegni e significati: chiusa delle “40 ore”, preparazione del Santo Sepolcro, lavanda dei piedi, spogliazione di tutti gli altari della chiesa, insieme a tutte le altre azioni liturgiche del giovedì santo.
Le campane in silenzio
3.Quel mattino quindi, dopo il suono a distesa del “Gloria”, tutte le campane rimanevano inesorabilmente mute e da quel preciso momento i nostri simpatici quattro campanari rimanevano giocoforza senza… lavoro!
Si suppliva però in qualche modo noi chierichetti più grandicelli e per annunciare le celebrazioni di quei giorni di silenzio, giravamo per il paese con la “racola” (gratola o raganella), poggiata su un carretto e accompagnata nel suo girovagare anche da uno stuolo festante di ragazzini che si ingegnavano per azionare a turno la manovella della macchina…
Anche in chiesa arcipretale, silenzio completo dell’organo in cantoria, al posto dei campanelli si usava però suonare la “martelletta”, una specie di grande martello di legno che, girando nei due sensi, percuoteva ritmicamente un’asse speciale fatta di legno apposito e acustico.
La sparizione del campanaro
4.Ma ritorniamo ai nostri campanari che, nel corso di un incontro “organizzativo” tenuto all’osteria del “doro” (il Leon d’Oro per intenderci), subito dopo la conclusione della processione notturna del venerdì santo, si accorsero di essere solamente in tre.
Carlo era assente ingiustificato, inspiegabilmente, nessuno l’aveva visto nemmeno durante la giornata. Si azzardarono infinite ipotesi, fioccarono anche gli interrogativi più strani e disparati: nella sua abitazione da scapolo non c’era! Si girarono allora anche le altre osterie lavisane, ma inutilmente: Carlo sembrava proprio svanito nel nulla.
Gli ultimi ritocchi
5.Si arrivò intanto al mattino del sabato e la grande cerimonia stava per avere inizio in tutta la sua complessità logistica e coinvolgente. In sagrestia si viveva l’abituale nervosismo delle grandi occasioni: il sagrestano dava gli ultimi ritocchi organizzativi a tutto quanto il programma.
I chierichetti ascoltavano gli ultimi ordini di servizio impartiti dall’arciprete don Celestino e dai due cappellani. C’erano anche i tre campanari superstiti, però Carlo era sempre introvabile, dove si era mai cacciato? Qualcosa era senz’altro accaduto, nessuno l’aveva più visto e nemmeno sentito, proprio scomparso nel nulla.
Le cerimonie
6.E venne poi anche l’inizio della lunga serie di cerimonie che precedevano la grande veglia pasquale: la benedizione del fuoco, il canto dell’Exultet, le letture dei più suggestivi e toccanti brani biblici, il canto delle Litanie dei Santi con i sacerdoti stesi per terra, poi la benedizione dell’acqua e del fonte battesimale.
Un insieme di riti, letture e canti, tutti rigorosamente in latino, che con sublime crescendo introducevano pian piano alla solenne Messa Pasquale.
Il sostituto
7.Intanto, in sagrestia si fremeva, Carlo non arrivava, chi lo poteva sostituire per tirare la corda della campana “mezzana”? La Messa era ormai agli inizi, più che doveroso quindi avviarsi verso il campanile.
Per sostituire il Carlo si era pensato al figlio del sagrestano, l’Alberto, che arrivava sempre a dare man forte al papà nei momenti impegnativi e quelli in extremis.
La sorpresa nel campanile
8.La grossa chiave entrò nella toppa e l’antica porticina del campanile a lato della 2ª salita del Pristol, si aprì senza nessuna difficoltà. La ventina di ripidi gradini in pietra furono subito superati e la comitiva arrivò nel locale detto delle “corde”, la cosiddetta sala dei concerti.
Ci fu un attimo di silenzio, rotto solamente dall’ansimare di qualche fiatone per colpa della fretta e delle ripide scale. Lì in terra, addormentato sul pavimento di assi, c’era un uomo avvolto in alcune coperte sdruscite e tanto usate.
Si udiva distintamente il suo russare, quasi ritmico e regolare, intervallato da un leggero fischio di accompagnamento… Il più vicino scrollò con forza l’enorme fagotto. L’uomo si girò prontamente con i due occhioni che interrogavano increduli.
Il suono delle campane
9.Era naturalmente il Carlo, con una manata si ripulì gli occhi ancora assonnati, quasi scacciando con foga il sonno e con uno scatto si drizzò subito in piedi. «Le campane, le campane, forza, tutti pronti, tutti insieme, forse siamo ancora in tempo»!
Ben otto braccia poderose scattarono in quel momento all’unisono, intanto in chiesa don Celestino intonò proprio in quell’istante il fatidico e atteso “Gloria in excelsis Deo”. Le campane, tutte le campane, sciolte da quel forzato riposo, vibrarono tutte insieme con il loro suono gioioso e liberatorio, fatto con la forza delle braccia e di tanta resurrezione annunciata.
Vino e focacce
10.Poi, dopo il mezzogiorno, a celebrazioni concluse, tutti quanti in sagrestia per le tradizionali “glorie”: vino nosiola dell’Emilio (Milio) Sartori, accompagnato dalle focacce appena sfornate del Carlo Varner.
C’erano tutti gli addetti ai lavori, naturalmente i chierichetti (per loro il nosiola era tabù ma c’era invece l’aranciata), tutti i sacerdoti celebranti, il padre quaresimalista, tutti i cantori del Coro Parrocchiale, naturalmente maschile, insieme all’organista, con naturalmente i 4Campanari4 al gran completo.
Occhi bagnati
11.Tra un bicchiere di nosiola e una fetta di focaccia, qualcuno domandò timidamente al Carlo le spiegazioni di questa sua “scappatella” involontaria.
«Ho fatto solamente buona compagnia alla mia campana e ho riposato anch’io come il suo “batocio”»… Era d’obbligo e tradizione poi, nello scambiarsi gli auguri pasquali, bagnarsi gli occhi con una goccia di vino bianco.
Non si seppe però mai se i quattro campanari avessero rispettato la tradizione, oppure se tra di loro, qualcuno stesse in quel momento piangendo di commozione…!
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